L’economia digitale, intesa come l’insieme di tutte quelle attività economiche che si basano appunto sull’utilizzo di tecnologie digitali, diventa ogni giorno di più una branca fondamentale dell’economia. La sua maggiore centralità ha portato all’attenzione la serie di sfide fiscali che essa comporta e, di conseguenza, ha aperto la discussione sulle soluzioni più adatte ad affrontarle.
I sistemi fiscali tradizionali si basano su un’economia di produzione fisica, nella quale viene individuata una base imponibile su cui applicare le aliquote. Nell’economia digitale questo passaggio è reso difficile dalla natura stessa delle attività dematerializzate che la compongono.
La fornitura di beni e servizi, nell’e-commerce ad esempio, non ha una presenza fisica o legale. E dato che con le leggi vigenti le aziende che risiedono in un paese possono essere tassate in un altro paese solo se hanno in quest’ultimo una sede materiale fissa, tenere traccia e regolarizzare la fiscalità relativa ai profitti delle imprese che operano nel digitale è un’operazione difficile e ancora piena di incertezze. Questo ha dato modo, soprattutto alle multinazionali, di elaborare pratiche di evasione o elusione fiscale.
Due delle proposte di tassazione pensate per essere applicate in questo contesto sono la Digital Tax e la Web tax. Vediamo di cosa si tratta.
La Web tax, proposta dalla Commissione Europea nel 2018, va ad applicarsi sui ricavi da vendita di pubblicità, sulla cessione dati e sull’intermediazione tra utenti e business. Vuole andare a regolamentare la tassazione sulle multinazionali che operano in rete, al fine di assicurare equità fiscale e concorrenza leale. Si tratta di una riforma fiscale che interesserebbe i paesi dell’UE e i paesi membri dell’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Siccome ancora non si riesce a trovare un accordo tra l’UE e l’OCSE, in attesa di una Web tax, diversi paesi hanno adottato la Digital tax, che consiste in un’aliquota da applicare sui ricavi conseguiti dalle aziende cosiddette Big Tech. I paesi ad averla applicata sono l’Italia, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, l’Ungheria e la Spagna.
Intanto la deadline per giungere a un accordo è stata più volte spostata, complice anche il coronavirus. Lo scorso giugno infatti gli USA si sono ritirati dal tavolo delle trattative addossando la colpa proprio alla pandemia, facendo rinvia la scadenza al 2021. La candidata alla guida dell’OCSE, Anna Diamantopoulou, ritiene che l’accordo potrebbe essere raggiunto entro l’inizio del 2022.