Sono anni che si sente parlare di carbon tax. C’è chi la elogia e chi ritiene che ostacolerebbe la crescita economica e l’occupazione. Ci sono paesi che l’hanno adottata già da tempo, altri che lo hanno fatto da poco o lo faranno a breve, e altri ancora che non sembrano avere alcuna intenzione di applicarla. Ma di che cosa si tratta realmente e cosa comporta? È davvero utile per ridurre le emissioni di Co2 nel disperato tentativo di salvare il pianeta? E ancora, quali conseguenze avrebbe sull’economia di un paese? Cerchiamo di fare chiarezza.
La carbon tax è uno strumento economico-fiscale pensato dagli economisti per contrastare le emissioni di Co2 e rallentare il riscaldamento globale. Si tratta di una tassa che può essere definita “pigouviana” dato che va a tassare un “male” anziché un bene, e che viene applicata su chi produce diossido di carbonio nell’atmosfera. In pratica il governo stabilisce un’aliquota fissa che viene poi imposta su ogni tonnellata di Co2 emessa. Tutto questo ovviamente per disincentivare l’uso dei combustibili a favore di soluzioni più ecologiche, come le energie rinnovabili.
Il primo paese ad averla adottata è stata la Finlandia, nel 1990, seguita poi da Svezia e Norvegia nel 1991 e dalla Danimarca nel 1992. Di fatto, i paesi del Nord Europa si trovano da tempo in cima alla classifica dei paesi che producono meno gas serra, con percentuali tra il 45% e il 55%. Secondo i dati della Banca Mondiale, in alcuni dei paesi sopracitati, una tonnellata di Co2 costa 60 dollari in Norvegia, 77 dollari in Finlandia e ben 127 dollari in Svezia.
Oltre alla tassa sul carbonio esistono altre iniziative che hanno lo stesso obiettivo, tra queste abbiamo gli scambi di emissioni come l’Emissions Trading Scheme adottato dall’Unione Europea. Sul sito della Banca Mondiale c’è una Carbon Pricing Dashboard che riporta in tempo reale il numero delle iniziative di carbon pricing e i paesi interessati. Attualmente ci sono 63 iniziative, di cui 46 costituiscono leggi nazionali e 35 riguardano amministrazioni locali. Uno degli ultimi paesi ad aver aderito alla carbon tax è la Germania dove, a partire dal 2021, si pagheranno 25 euro per ogni tonnellata di Co2. Successivamente l’imposta salirà a 55 euro e potrà arrivare fino a 65 euro.
Il numero di consensi tra gli economisti è alto, come testimonia la firma di oltre 3500 di loro nel Climate Leadership Council’s Statement, pubblicato sul Wall Street Journal nel 2019 e nel quale si sostiene che la tassa sul carbonio è “lo strumento più conveniente, in termini di costi-efficacia, per ridurre le emissioni di carbonio in scala ed una spinta in questa direzione è necessaria”.
Ciò nonostante, la carbon tax non è vista di buon grado ancora da diversi paesi, i quali ritengono che andrebbe ad avere enormi effetti negativi sull’economia e sull’occupazione. Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione di Trump, sono proprio tra coloro a sostegno di questa idea. Il Presidente ha di fatto annunciato anche l’uscita del paese dagli Accordi di Parigi, sostenendo che le restrizioni previste a favore del clima, costerebbero all’economia americana “circa 3 trilioni di dollari in meno nel PIL e 6,5 milioni di posti di lavoro”.
Due studi recenti sembrerebbero però smentire questa tesi. Le ricerche, entrambe condotte dall’Istituto Resources for the Future, si basano sui dati raccolti in 15 paesi europei che adottano la carbon tax da circa 30 anni. Ciò che emerge è che non esiste alcuna evidenza che la tassa sul carbonio abbia effetti negativi sulla crescita, anzi, a quanto pare, gli effetti sull’occupazione sarebbero persino positivi. Si pensa che questo sia dovuto al fatto che molti paesi avrebbero utilizzato gli introiti provenienti dalla tassa sul carbonio per ridurre altre tasse, incentivando di conseguenza i consumi.